Foùre tèrre.
Oltre i confini del proprio borgo.
Chiamavano così le compagnie,
di poveri braccianti e mietitori
portati ai campi da ricchi terrieri
per latifondi delle loro terre.
Lucania e Tavoliere spighe d'oro
avevano a smaltir in calda estate,
un sopra l'altro sostavano nei borghi
nell'adunanza, stanchi nell'attesa,
seduti in terra, giaciglio il marciapiedi,
come i barboni d'oggi lì a dormire
su materassi d'ondulata carta,
un poco spessa usata per i pacchi.
Addosso l'un con l'altro addormentati,
sfiniti per il viaggio fatto in bici
o con carrette prese a nolo in gruppo.
Con loro le bisacce con il pane,
po' di formaggio ed i pomodori,
una borraccia colma d'acquedotto
e pochi stracci per il cambio, un tanto,
addosso una mantella vecchia ed unta
per protezione ai brividi squassanti
della malaria dilagante allora,
nelle valli brulle di Lucania
o nelle terre da bonificare,
con stagni maldoranti di paludi.
Braccianti per travaglio "foùre tèrre",
una medaglia al collo a protezione,
legato a un filo grosso di cotone,
un abitino dell'Immacolata
e nel panciotto immagine del Santo,
il più devoto che protegga l'uomo
e un paio di dozzine di tornesi
avvolti in fazzoletto, bello stretto.
Così l'attesa allora si spezzava
e si spezzava pure loro schiena
con falce per il mietere del grano.
A sera indolenzite quelle schiene,
chinino, allora, come medicine.
Lorenzo 31.12.22