I solchi del cuore ©

Mauro, suo figlio, era uscito e lei, dopo aver assolto le faccende domestiche, s’era seduta, come suo solito, sul divano. Era sola, stanca, in quella casa così vuota, ma così piena di fantasmi del passato e del presente.
Girava e rigirava il panino tra le mani, non aveva voglia di mangiarlo, desiderava solo che quell’ inferno finisse per sempre.
Aveva preso la sua decisione dopo aver compreso che, nonostante aveva provato in tutti i modi a raddrizzare la sua vita, tutto restava così irrisolvibile ed inaccettabile.
Volle, per l’ultima volta, ripensare al passato fino a quel preciso momento, come atto dovuto alla sua coscienza.
Ricordò il piccolo sgabello che le permetteva di arrivare al lavello per pulire i piatti sporchi che la mamma non aveva potuto lavare. Aveva quattro anni appena. Canticchiava una favola inventata per non udire il pianto della madre, che proveniva dalla camera da letto, ed gni tanto spostava, con le piccole mani, i riccioli biondi che le coprivano la fronte.
Si rivide poi in seconda elementare. Si recava da sola a scuola ed all’uscita guardava incantata i sorrisi delle compagne, mentre stringevano la mano al proprio genitore.
Il tempo trascorreva, si alternavano le stagioni e le festività.
Il Natale era sempre stato per lei e per la sua famiglia la festa più triste. Stavano soli, loro quattro, nessun invito, nessuno che avesse accettato di trascorrere un solo giorno insieme.
Si chiese tante volte se la causa di quel vuoto intorno fosse stata l’irrequietezza del fratellino, fin quando capì che spesso il cuore è distante anni luce dal comprendere il significato della parola Amore.
Arrivò il tempo della scuola superiore, il suo unico spazio sereno, per poi tornare a casa e restare inchiodata alla finestra a fissare le stelle per ore, mentre le compagne andavano in giro o in discoteca.
All’università fu dura i primi tempi, i compagni di corso la guardavano dall’alto in basso perché il papà era sempre fuori dall’ateneo ad aspettarla, beffa del destino!
Lei rispondeva con un sorriso ed abbassava lo sguardo.
Trascorso un breve periodo tutti divennero suoi amici, qualcuno le disse che la sua dolcezza li aveva contagiati.
Già la sua dolcezza! Carezza al cuore per impedirgli di esplodere per lo sdegno e per il dolore che teneva stretto dietro la sua maschera di dignità.
Compensava così anche l’arroganza del mondo, l’indifferenza della gente, la crudeltà della vita.
Imparò ad incatenare le lacrime tra le ciglia anche quando il suo volto fu tumefatto dalla violenza umana.
La mente vagava tra i meandri segreti e profondi della sua anima quando decise di alzarsi dal divano per andare nella camera dei ragazzi.
Aprì il loro l’armadio e ripeté lo stesso gesto che segnava ogni suo giorno da qualche anno.
Avvicinò al viso una camicia che Cristian aveva lasciato, si inebriò del suo profumo, abbassò le palpebre e lo chiamò invano.
Era andato via, non voleva più vederla, forse le condannava di avergli tolto una famiglia…un padre…ma, lei ricordava solo i pugni sferrati sul suo corpo esile. Cristian non capiva che l’aveva fatto anche per lui, per loro… non capiva che lei era stanca, e che, anche se lo sgabello non le serviva più, il fardello sulle sue spalle era troppo pesante…
Smise di ricordare.
“ecco, ora posso uscire “ -
Prese l'auto e si allontanò in un luogo appartato. Si fermò e scrisse alcune righe, poi… chiuse gli occhi.
Quando si svegliò era in sala di rianimazione.
Un dottore dal viso angelico le strinse la mano
- bentornata -
La informarono che l’auto fu trovata contro un muro.
Fu assalita da una folla di pensieri…
- ma io…mi sono fermata…là in quella strada…chissà…forse non volevo restare più là…forse cercavo qualcuno…non so…
Nessuno le chiese…nessuno tornò a quel giorno, nemmeno lei, poiché decise di ritornare guerriera, di soffrire e gioire, di sperare ed illudersi, di essere paziente ed indignata, comprensiva ed intransigente.
Decise sopratutto di continuare ad Amare ed abbracciare ogni gioia ed ogni pena della sua esistenza, a costo di spaccarsi il cuore.